La città
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXXII, fasc. 304, p. 3
Data: 22 dicembre 1957
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Le prime città, auguste e quasi deserte, eran tutte in cima ai monti: quasi volessero esser più vicine alla dimora degli Dei. Più tardi, quando i ceti mercantili, formati di corsari smessi e dei primi usurai, presero il sopravvento sulle vecchie classi sacerdotali e agresti, la città s'ingrandì e decadde: scese al piano, sulle rive dei mari o dei fiumi. E ci furono, a volte sotto uno stesso nome, le due città: la città sacra, acropoli mistica lasciata sulla montagna, e la città trafficante che s'allargava là sotto come un tumore a rodere il bel verde dei campi.
E più s'ingrandirono più furono sconsacrate. I due fuochi della metropoli arcaica erano il Tempio e la Reggia, asili chiusi d'un Dio e d'un Re; poi furon le Piazze, quella dei comizi e quella del mercato; nel medioevo tornarono ad essere la Cattedrale e il Palazzo dei Signori; oggi, il Parlamento, la Borsa, il Teatro e lo Stadio: la fiera della falsa, potenza, la fiera della falsa ricchezza, la fiera della falsa vita e la fiera della falsa forza.
Ogni spirito nobile, quando deve lasciare la libertà della solitudine per rimprigionarsi nella malsanità dell'arnie colossali, prova un senso di ribrezzo, quasi tornasse dalla purità nel peccato, dalla pace all'ossessione. Le città, si chiami Caino, Romolo, Pizarro o Penn il fondatore, sono asili di fuggiaschi e i loro abitanti hanno ancora nel sangue un'ansiosità che somiglia al rimorso forse di aver ricoperto tanta parte del volto della terra, opera d'Iddio?
La città è una rappresaglia sulla natura selvaggia che per tanti secoli stancò e impaurì gli uomini. Sopra il ricordo del fango ha disteso la pietra o l'asfalto; contro gli avviluppamenti spinosi delle selve ha tracciato le strade sicure e diritte; ha imprigionato i fiumi e vi ha gettato sopra i suoi ponti; contro la pioggia ha costruito portici e gallerie e rispondo all'antico terrore della notte con tutte le sue luci.
Ma questa rivincita sulla selvatichezza inquietante del primo mondo costa, come tutte le vittorie, al pari d'una sconfitta. Le città grandi sembrano macchinazioni ben riuscite per corrompere gli elementi più necessari alla vita. L'aria pura delle campagne è divenuta la dentro una mistura pesante di fiati, di fumo e di polverume; il profumo della vegetazione si muta in fetori di fogna; la felicità del silenzio è lacerata giorno e notte da infiniti strepiti; e il sole penetra di rado e malamente nelle stanze dei cafarnai pestilenziali dei vecchi sobborghi.
L'uomo fu creato per vivere in un immenso giardino e non già nei dedali pietrosi delle metropoli. La città, rinnegamento della natura, è l'antiparadiso. L'Eden fu piantato dal creatore della vita; e le prime città furon fondate dall'inventore della morte. Quello era popolato dalle bestie mansuete, queste sono zeppe di uomini disumanati. Mentre la campagna nutrisce e ristora i cittadini, la città invade, attira e corrompe le campagne. Eppure l'ingrata plebe cittadinesca disprezza la campagna. Non conosce le meraviglie generose dei boschi e dei campi, nè ha mai goduto un'alba, nè sa distinguere una spiga d'orzo da una d'avena, nè un cerro da un faggio. Non c'è scrivano che passi la vita tra il mezzo buio del suo ufficio che sa di rinchiuso e il mezzo buio delle sue camere polverose che non si senta superiore al contadino che semina il suo grano sull'alture e vede fiorire i suoi prati e imbiondire le sue raccolte sotto un cielo che dà acqua, calore e salute a benefizio di tutti.
La magnificenza dei monumenti, l'eccitazione della compagnia, gli spassi e i comodi quotidiani, il bruciar più vivo dell'intelligenza si scontano duramente colla inestimabile perdita d'ogni comunione colla natura.
Quella stessa fervenza degli spiriti ch'è l'unico vanto delle città è nutrita dalle solitudini. La città non crea ma consuma. Com'è l'emporio dove affluiscono i beni strappati agli agri, così vi accorrono le anime più fresche delle provincie e l'idee dei grandi solitari. La città è come un rogo che illumina perchè strugge ciò che fu creato lontano da lei, e talvolta contro di lei. Tutte le città sono sterili. Vi nascono, in proporzione, pochi figlioli e quasi mai un genio. Tutti vi affluiscono, per vincere, ma le grandi opere e i grandi pensieri vengono dal di fuori come ad una gara e ad una fiera. Nelle città si gode ma non si crea, si ama molto ma non si genera, si compra ma non si produce. Sono come l'aia nel podere: il pezzo più sterile e nello stesso tempo il più ricco perchè si porta lì ogni raccolto.
Il risentimento della sterilità le spinge all'ingratitudine. Le città più illustri hanno sempre punito i loro salvatori e dominatori: Gerusalemme assassinò i suoi Profeti; Atene fece morire in prigione Milziade e avvelenò Socrate; Firenze espulse Dante e bruciò Savonarola; Roma ammazzò i tre padri della sua grandezza: Romolo, Cesare e Pietro.
Dio stesso ha voluto confermare l'atroce missione delle metropoli. Cristo nacque in un villaggio, disse le sue parole più divine sui monti e scese alla città soltanto per essere ucciso.
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